Vite concluse
foto di Lucia Patalano
dal 27 gennaio al 12 febbraio 2012
inaugurazione : venerdì 27 gennaio 18.30 > 22.30 - in occasione della “Giornata della Memoria”
Prefazione di Aldo Masullo al catalogo della mostra (Lucia Patalano, “Vite Concluse”, Magma Editore, Napoli, 2000)
Ho sempre pensato che mortale non è il corpo, ma l’anima.
Il corpo è materia: morto non s’annienta, bensì si trasforma. Se ne liberano gli elementi, che poi si organizzano in nuovi corpi. L’anima invece con la morte del corpo si annienta. I pensieri pensati, le emozioni patite, le immagini fantasticate, i ricordi profondi, insomma tutti i vissuti, con la morte della persona non si trasformano in alcunché: si annullano. Se, ormai, al presente non sono, non soltanto mai più saranno, neppure in altra forma, ma non sono mai stati.
Perciò forse la cultura colletiva, nel suo inconscio sapere, s’è creata l’idea dei fantasmi. Le loro presenze, nei castelli e nei palazzi un tempo abitati, non sono le persone morte, ma i loro vissuti più intensi che, sciolti dalle esaurite esistenze, come esuli senza patria vagano, disperatamente rifiutando di ridursi a niente. A chi visita un edificio disabitato gli ambienti, i mobili, le più povere cose, dileguatisi i soggettivi sensi che un tempo li animavano di oggettivi significati, appaiono come gusci vuoti, cavità deserte.
L’occhio fotografico di Lucia Patalano si aggira inquieto, pietosamente impietoso, entro il drammatico relitto del “bagno penale di Procida”, penetrando nei siti riposti e fissando come per magia la vita che non c’è. Come gli archeologi che, negli scavi pompeiani, riempiendo di gesso sotto lo strato millenario le cavità lasciate dai corpi, nel positivo del calco invertono il negativo delle distrutte forme, così la fotografa, dai vuoti degli ambienti e dall’inutilità delle cose abbandonate traendo incorporei calchi di luce e bui, offre di nuovo vibranti le emozioni che qui si sono perdute.
Un edificio carcerario vetusto, di origine borbonica, le sue rozze strutture, la funzione affittiva espressa nella visibile durezza delle condizioni di vita quotidiana, le enormi mura nude o male intonacate, il bugliolo, i letti di contenzione, le celle d’isolamento, le bocche di lupo, i sotterranei, insomma la pratica arcaica della pena, ancora del resto esercitata fino a non molti anni fa, paradossalmente sembrano della realtà penitenziaria una rappresentazione più “umana” di quella che il miglior carcere moderno offrirebbe. Non viene imbellettata la terribile sostanza della detenzione. Il carcerato è essenzialmente sottomesso: rinchiuso, legato, spiato. Le scomodità, le privazioni, la mancanza d’igiene, la “passeggiata” in un angusto spazio tra altissime mura, le vere e proprie torture dell’isolamento e della contenzione, che con la fotografia della Patalano con le immagini del presente resuscita dal passato non sono oggi reali, ma sono gli impressionanti simboli di ciò che sempre e comunque è l’obbrobrio dell’ “umanità” carceraria, la sua irredimibile verità d’impotenza e di morte vissute attimo per attimo.
Sono queste le più violente emozioni perdute. Per quanto penose, esse sono vita, vita vissuta che il carcere mortifica ma a cui non toglie d’esser vissuta nella sua miseria.
Enormi potenzialità di senso si sprecano così nella sterile sofferenza della coazione all’inutilità.
Aldo Masullo